The Big Bubble Gallery, #25


Il messaggio in cornice è apparso sulla mia pagina FB poco prima dello scorso Natale, ed è la prova scientifica che l’interattività della digital advertising – anche se ultimamente alquanto contenuta (TBBG, #5) – è un fatto. Appena questo annuncio sponsorizzato ha incrociato i miei occhi, infatti, non sono riuscito a resistere alla sua implacabile capacità di ingaggio, e ho cliccato. Che lo abbia fatto solo per immortalare con uno screenshot questo monumento equestre alla diarrea comunicativa eletta a linguaggio hip dagli Sciamani Siliconiani è un altro conto. Intanto ho cliccato: e sono certo che Facebook, che considera prove di engagement anche i clic effettuati per togliere il volume o far sparire i pop up, lo avrà senz’altro registrato come testimonianza di una strepitosa performance. Questo annuncio è evidentemente brutto, bruttissimo; ed è anche talmente goffo da risultare in un certo senso addirittura insultante. Cosa del resto abbastanza ovvia visto il suo crafting scimmiesco, che riesce a piazzare un refuso in sole 120 battute.  Ma la sua caratteristica più grave non è la sua deplorevole qualità specifica: è il fatto che di per sé non è né meglio né peggio del 99% delle centinaia di messaggi digitali che invadono ormai ogni singolo secondo delle nostre esistenze attraverso ogni tipo di device, generando un devastante appiattimento del linguaggio e un conseguente annullamento della sua capacità di produrre alcuna forma di senso al di là di un insopportabile rumore di fondo. I messaggi lanciati dalla digital advertising sono tutti – scorrendo i deliranti tutorial dedicati alle sue regole d’oro si direbbe “on purpose” - sciatti, inconsistenti, inerti. Dicono tutti la stessa cosa e solo la stessa cosa: “so dove trovarti, so chi sei, questo è ciò che ho da proporti, ora rispondi alla Call-To-Action”. La call to action: clicca qui, scopri di più, chiedi un preventivo. Chissà se chi elabora, chi distribuisce e chi paga questi messaggi sa che la call to action era la forma primitiva della pubblicità moderna fra la fine dell’Ottocento e gli Anni Venti del Novecento (prova questo, ordina un campione, compila il coupon); ma direi di no, altrimenti costoro saprebbero anche come mai quella formula sia stata molto presto soppiantata da modalità più articolate e più evolute di comunicazione: per il semplice fatto che le persone non fanno una cosa solo perché gli viene detto di farla. Una ovvietà abbagliante perfino per dei bambini poco svegli o molto distratti, ma non – a quanto pare - per dei laureati alla Bocconi responsabili della allocazione e gestione di importanti budget pubblicitari. Infatti questi messaggi “né meglio né peggio” – tutti elaborati secondo una logica che rispecchia fedelmente quella degli algoritmi (ecco perché sono tutti uguali) ma che non tiene in alcuna considerazione le regole basiche della comunicazione umana – sono arrivati di recente a rappresentare il 46% del volume globale della comunicazione pubblicitaria italiana, per un valore di oltre 4 miliardi di euro all’anno. Il loro linguaggio primordiale e superomologato ha finito ben presto per dilagare al di là dell’ambiente digitale, contagiando con la sua demenziale inconsistenza e pretestuosità il linguaggio di tutta la comunicazione pubblicitaria, e non solo di quella. Avete capito bene: sto sostenendo che la regressione bestiale della nostra interlocuzione sociale non è affatto ascrivibile principalmente ai politici, come si dice, e neppure ai politici peggiori. A differenza del nostro sistema industriale, infatti, nessun saltimbanco populista – neanche Berlusconi con il suo faraonico impero mediatico ipertrash e neanche Salvini con la irresponsabile complicità di quasi tutti i conduttori di prima serata che lo hanno tenuto inchiodato davanti alle telecamere finché non ha sfondato la barriera del 30% (altro che i post de La Bestia) - ha mai avuto la capacità finanziaria né la costanza di investire svariati miliardi di euro l’anno per un ventennio filato nella sistematica, pervasiva e incessante degradazione del linguaggio collettivo, fino a trasformare l’intera conversazione sociale nel gorgoglìo dell’acqua di scarico di un cesso alla turca. E i risultati sono davanti ai nostri occhi, non solo sotto forma di tonnellate di macerie culturali ma anche di milioni di cervelli semiatrofizzati dalla ossessione semplificatoria del “frictionless” e di modalità di relazione rese sempre più improduttive (e anche più comiche) dalla vertiginosa caduta delle soglie di attenzione. Non sarebbe strano se fra i motivi della vertiginosa crescita del fenomeno dell’ad-blocking ci fosse, oltre al comprensibile fastidio e al semplice disgusto, anche questa consapevolezza. I dati del 2018 ci dicono che circa il 47% di tutti gli internet users mondiali utilizzano dispositivi per filtrare o bloccare del tutto le inserzioni pubblicitarie, e che il trend risulta in crescita costante in tutti i continenti a partire dal 2013. Stiamo parlando di oltre 2 miliardi di persone: due volte e mezza l’intera popolazione dell’Europa. Secondo uno studio pubblicato su Internetworldstats, le motivazioni principali degli ad-blocker sono due: gli ad sono “troppi” (48%) e risultano “annoying and irrelevant” (47%). Se pensate che quello di “fornire al pubblico annunci sempre più rilevanti” è l’alibi-mantra con cui da sempre Facebook e Google motivano le loro scorribande planetarie di saccheggio dei dati comportamentali, allora il titolo di questa rubrica vi sembrerà una scelta fin troppo democristiana. Shaul Olmert – manager, imprenditore e startupper digitale di fama mondiale – ha scritto a proposito dell’ad-blocking: Users are conveying a loud and clear message, which the industry can no longer deny: online advertising sucks”. Il suo articolo reca un titolo decisamente meno moderato del mio (“Online advertising needs to die”) ed è stato pubblicato da The Drum nel novembre del 2015; cinque anni fa. Si tratta più o meno dello stesso ritardo che abbiamo accumulato rispetto al resto del mondo in tutti gli altri ambiti della comunicazione. Magari fra i grandi cambiamenti che ci aspettano alla fine del tunnel del Covid-19 troverà spazio anche la piccola consolazione di assistere al plof della bolla dell’adtech, chissà. Speriamolo con tutto il cuore, cari amici di Greta.

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