The Big Bubble Gallery, #42


Qualche giorno fa, per documentarmi sul mondo dei corsi di comunicazione digitale, ho cliccato su un paio di post sponsorizzati di sedicenti guru del digital copywriting. Dodici minuti dopo qualcuno deve aver dato un segnale, perché si è scatenato l’inferno. Sono stato letteralmente tempestato di pop-up e svariate altre tipologie di molestie techno-gutturali, tutte ovviamente orientate alla vendita di miracolose dispense e imperdibili tutorship a firma di personaggi non solo letteralmente incapaci di formulare una proposizione a piacere senza ferire a morte la sintassi ma anche vistosamente in preda a gravi disturbi della personalità, ai quali si esiterebbe ad affidare il cane per portarlo a pisciare.
Adoro l’automatismo e l’implacabilità - allo stesso tempo magici e ridicoli – con cui si attivano i meccanismi della profilazione: in questo caso, in meno di mezza giornata mi hanno permesso di raccogliere senza neppure sbattermi una mole di materiale documentario da cui si potrebbe trarre il libro definitivo sull’impazzimento dell’umanità nel Terzo Millennio. Ma quello che cercavo non era una passerella di freaks. Era una chiave di accesso alle caratteristiche strutturali del modello produttivo dell’adtech che cercavo; e quella della offerta formativa veicolata dagli stessi canali mi sembrava un’angolatura promettente da cui osservare. Non mi sbagliavo.
Fra le maglie di quelle dementi e spudorate autopromozioni, i cascami di quei toni circensi e quelle risibili argomentazioni da piazzisti di lozioni per la ricrescita dei capelli, infatti, è improvvisamente emerso un dato che non avevo mai messo a fuoco con tanta chiarezza: nessuno dei venditori usava la stessa parola per definire l’oggetto dei propri corsi, ossia il proprio prodotto.
“Content writing”, “Persuasive copywriting”, “Emotional copywriting”, “SEO copywriting”, “SEM copywriting”, “Direct response copywriting” e addirittura “Compliant copywriting” sono solo alcune delle fantasmagoriche definizioni che rilucevano nella indistinta fanghiglia situata sul mio desktop. Come dire che oggi le sole forme di scrittura riconosciute dal mercato formativo sono quelle che rispondono ai vincoli e alle compatibilità imposti dalle piattaforme tecnologiche anziché agli obiettivi di comunicazione: c’è chi insegna a scrivere per allungare il brodo e chi invece per tagliare corto, chi per argomentare e chi invece per sedurre, chi per colpire una molteplicità di lettori in carne e ossa e chi invece per vellicare l’algoritmo di Google Search, chi per provocare delle reazioni e chi invece solo per assecondare i capricci di un software.
Fra questi profeti immaginari della “scrittura per vendere”, non ce n’è uno che insegni a scrivere per farsi capire senza banalizzare e anche per farsi seguire senza annoiare, per rendere interessanti delle tematiche che farebbero tristezza a un becchino e anche per rilasciare un impatto profondo e persistente anziché un impatto sguaiato destinato a disperdersi in un decimo di secondo. Insomma, nessuno che insegni a scrivere per comunicare.
Com’è stato possibile arrivare a questo punto? Semplicissimo: rimodellando l’intera industria della comunicazione sui canoni imposti dalle Big Tech e prontamente sottoscritti – con la solita proverbiale lungimiranza – dalle aziende e dalle agenzie.
Infoiati dall’irresistibile richiamo seduttivo della Santissima Trinità dell’adtech (abbattimento dei costi, compressione dei tempi, standardizzazione dell’output), i membri di questa quanto mai disomogenea alleanza hanno provveduto nell’arco di un quindicennio a scomporre e parcellizzare il mestiere di comunicare in modo tale che nessuno degli attori sia più in grado non dico di controllare o anche solo di influenzare il processo produttivo nel suo insieme – frantumato com’è in mille micro-tecnicismi autistici e autoreferenziali – ma neppure una sua porzione significativa.
Bill Bernbach, quel tizio che riuscì a vendere l’utilitaria voluta dal Führer ai figli dei marines morti a Omaha Beach, diceva “Adatta la tecnica all’idea, non l’idea alla tecnica”: detto fatto, ma esattamente al contrario. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, sotto forma del petulante e inesausto diluvio di scemenze concettuali, imbarazzanti balbettii espressivi e inaudite banalità che costituisce l’unico vero marchio di fabbrica della digital advertising; ma ai nostri amici basta la sensazione di cavalcare la cresta dell’onda di una irresistibile innovazione per essere felici.
Peccato che la pretesa innovazione non sia altro che uno dei tanti remake, solo più strumentale degli altri. Si tratta infatti della piatta applicazione al comparto della comunicazione di quanto teorizzato da Frederick Winslow Taylor nel suo “The Principles Of Scientific Management” (1911) come soluzione per razionalizzare e fluidificare la produzione in serie nell’ambito della manifattura industriale: affiancare alla crescente specializzazione dei macchinari – che finirono ben presto per diventare monovalenti, cioè dedicati a una sola tipologia di prodotto – una drastica riconfigurazione della organizzazione del lavoro, secondo la quale operazioni rese sempre più elementari e ripetitive, e perciò richiedenti tempi di esecuzione sempre più ridotti, vennero assegnate a lavoratori sempre più dequalificati in luogo degli operai di mestiere, mentre tutte le funzioni più articolate e complesse divennero appannaggio esclusivo di tecnici specializzati e personale di direzione.
Insomma, ci hanno rivenduto la catena di montaggio fordista e noi l’abbiamo scambiata per Woodstock. Ricordiamocene, la prossima volta che sentiremo qualcuno definire l’avvento della digital advertising una “rivoluzione”. La parola giusta è un’altra: “ristrutturazione”.

P.S.: Naturalmente non tutta l’offerta formativa rientra nella deplorevole casistica convogliata sul mio dispositivo dalla profilazione: so per esperienza che grazie a dio perfino in questo disgraziatissimo paese esistono delle strutture e degli insegnanti che non si limitano a vezzeggiare i trend con proposte inconsistenti e/o truffaldine ma offrono stimoli e supporti di grande qualità. Riconoscerli non è difficile: per capire di che pasta è fatto un comunicatore, vedere come comunica se stesso forse non basta ma di certo aiuta. Il problema è che la parte più esposta dell’iceberg - quella in cui è più probabile che si imbatta online chi è alla ricerca di un orientamento - è proprio quella più omologata ai dettami del Grande Suk della Fuffa. Ed è purtroppo quella brodaglia inqualificabile che “fa il mercato”.

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